I modi e le condizioni per ottenere la cittadinanza pisana nel trecento

Leggendo le pergamene o le pagine di certi registri di amministrazione medievali, non si manca di notare come la stragrande parte dei protagonisti di compravendite o di vicende – in genere di buon ceto sociale e a volte di famiglia proveniente dal distretto o ddl contado –, siano detti “cittadini” di Pisa (oppure di Firenze o di Lucca, eccetera ...).
Ne consegue che non si può non porsi la questione dell’importanza di tale qualifica che, nell’astrazione o meglio nella suggestione dello spirito del tempo, poteva ricordare uno stile di vita, una cultura, un’appartenenza ambita, la reminescenza della civitas di un mondo antico – quello romano –, ricco, glorioso, sapiente, pensato sempre vivo e di cui ci si considerava gli eredi legittimi.
In ambito però più concreto, come fu quello toscano medievale, un “cittadino” usufruiva anche di un luogo protetto, di comodità, di mercati, di privilegi e immunità, di cariche pubbliche e poteva chiedere la difesa dei propri interessi in terra e in mare ad esempio con una rappresaglia, un sussidio se in difficoltà, e così via.

Ma quali erano i requisiti per ottenere la cittadinanza di Pisa?
Li ricorda una carta del 1323, emanata dal Consiglio del Senato e Credenza degli Anziani, maggiore e minore: “videlicet” (cioè) 15 uomini per quartiere, 12 del popolo, il console del Mare, il console dei Mercanti, il console dell’Arte della Lana, i capitani e i priori delle Sette Arti.
Convocato dal podestà Nello da Monte della Casa, era stato chiamato a decidere sull’istanza di cittadinanza di Ranuccio e Gherardo, fratelli e figli del fu Ugo Monaldi da Firenze, presentata “pro se, liberos et descendentes” (per loro, i figli e i discendenti).
I fratelli avevano dichiarato di essere pubblici mercanti “sunt et semper fuerunt gebellini et amatores fideles et devoti Pis(anorum) com(unis) et pop(uli)”, e avevano considerato il fatto di come i mercanti a Pisa fossero trattati “benigne et gratiose ... et tute possunt in ea manere (benignamente e in modo compiacente ... e possono stare sicuri in essa)”.
Si impegnavano inoltre ad assolvere alla condizione richiesta per la concessione della cittadinanza: acquistare entro quattro mesi tremila librate di possessioni in città o nel contado, obbligate e da non alienare in alcun modo, per pegno e speciale sicurezza del comune stesso. In più avrebbero dovuto contrarre l’estimo fino a 200 lire, pagare le tasse come si esigeva a Pisa, e riguardo ai cavalli, potevano tenerne uno a servizio del comune per la “cavallata” (milizia).
Il Consiglio fece partito e votazione con i “denarios albos et giallos”, presenti Pietro del Fornaio scriba pubblico della cancelleria, ser Iacobo di Vitale da Calci cancelliere del comune, ser Maggio da Montefoscoli cancelliere degli Anziani e Vanni di Tancredi banditore”.
Pochi giorni il Consiglio più otto uomini sapienti per quartiere fu nuovamente convocato dal nobile Goncello da Poggio capitano del popolo. I Monaldi erano stati accettati e aggregati. Furono pertanto investiti della cittadinanza assieme ai privilegi, immunità e prerogative con il “baculo” (bastone) e fecero giuramento alla presenza dei notai sopra citati e del socio del podestà, il cavaliere ser Massi di Bernarduccio da Serra.
Non molto tempo dopo onorarono l’impegno preso: l’acquisto di due possessioni per il valore di tremila librate.
La prima fu un pezzo di terra con bella casa “sive palatio”, con chiostro, pozzo, pergole, e aranci, frutti e alberi, posta nella parrocchia e carraia di Santa Maria Maddalena (via Mazzini), a confine con la stessa carraia e della terra di Sant’Egidio. Fu loro venduta per le rispettive quote da Vanni del fu Banduccio, da Ianni del fu Lapo e da Colo e Coscio del fu Pietro tutti dei Bonconti per 2600 lire – e a leggere la descrizione valeva la cifra sborsata.
La seconda possessione fu un altro pezzo con casa a tre solai e terra vacua “cum medio puteo post ipsam domum”, situata nella parrocchia con un capo di confine nella carraia e un lato in una casa della chiesa di Santa Maria Maddalena. La vendette il notaio Francesco dei fu Ranieri Pattieri per 400 lire.
Le compravendite furono riportare in sunto nella lunga carta “bollata” di concessione della cittadinanza che venne scritta nel palazzo del comune dal notaio e giudice ser Ranieri di Paolo dal Borgo di San Marco in Chinzica.

Qualche nota sull’argomento e sull’epoca. La cittadinanza allora era ‘esclusiva’ e si basava, non sulla residenza, ma sul ceto organizzato e sulla proprietà immobiliare che, nella fiorente Pisa, come si vede, valeva cifre cospicue.
Tra i gruppi sociali, i mercanti erano dei più ricchi e stimati e venivano protetti nell’esercizio del loro mestiere. Per comprendere la considerazione in cui erano tenuti, basti pensare a come la sola istanza dei Monaldi avesse provocato l’adunanza del Consiglio maggiore e minore della città.
I due fratelli da parte loro accettarono le condizioni quasi senza batter ciglio ma, dichiarandosi ghibellini, fecero una professione più di captatio benevolentiae che reale. Si vede da qui infatti come all’epoca (e già da un pezzo) anche l’Impero e i suoi seguaci fossero diventati una ‘suggestione’, nonostante le guerre condotte a loro nome da Castruccio signore di Lucca e fomentate dagli stessi sovrani ...
Se infatti l’autorità imperiale fosse stata reale, la civitas, con i suoi mercanti trattati con “benignitate”, sarebbe stata molto meno autonoma e in secondo piano rispetto a una relazione feudale che era solo di tipo personale, basata sul rapporto tra imperatore, signore e vassallo sarebbe stata molto meno autonoma e sarebbe dovuta rimanere sempre indietro rispetto a una relazione feudale che era solo di tipo personale, basata sul rapporto tra imperatore, signore e vassallo.

Paola Ircani Menichini, 4 maggio 2023.
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